Inganni e truffe ma anche notizie interpretate male, ripicche, aggiornamenti dimenticati, sviste, errori e grandi affari: il progresso del sapere, per quanto riguarda archeologia e storia è disseminato di falsi più o meno volontari.
Credere all’esistenza di misteri non vuol dire credere a tutto: ecco perché stasera vi proponiamo un viaggio intorno alle BUGIE.
La nostra ricerca parte da Baker Street 221 b: uno degli indirizzi più noti non solo di Londra ma anche dell’intera letteratura gialla.
Era la casa di un personaggio mai esistito nella realtà ma famoso per la sua straordinaria capacità ragionativa: Sherlock Holmes. Anche noi come come Sherlock Holmes andremo a caccia delle troppe notizie sbagliate che da sempre inquinano la ricerca.
Non c’è periodo storico immune da questa piaga. E per cominciare, iniziamo proprio col papà di Sherlock Holmes: Arthur Conan Doyle.
Con Conan Doyle e i suoi romanzi nasce il cosiddetto «giallo scientifico». Conan Doyle nasce nel 1859 e pubblica il primo romanzo con Sherlock Holmes come protagonista a soli 28 anni, nel 1887:
«Uno studio in rosso». Da allora la figura del detective che con la forza del ragionamento, seduto nel suo studio di Baker Street, aiutato dal fedele Watson, entra nella cultura popolare non solo in virtù di vari romanzi ma anche grazie a film e fumetti.
Ma Conan Doyle era simile al suo personaggio? Inizialmente forse, ma poi, dopo che un suo figlio morì durante la Prima Guerra Mondiale, iniziò ad avvicinarsi agli ambienti esoterici e spiritistici che in Inghilterra da sempre sono molto diffusi.
Questa è la necessaria premessa per spiegare come un uomo come Conan Doyle fu l’involontario artefice di una clamorosa bugia fotografica: quella delle «fate di Cottingley».
Cottingley è un paesino dello Yorkshire. E’ qui che, novant’anni fa, vivevano Frances Griffiths, dieci anni, e la cugina Elsie Wright, di 16 anni.
Le due ragazzine, nell’estate del 1917, tornarono a casa bagnate fradice. Per evitare i rimproveri dissero di essere cadute in un ruscello mentre guardavano delle fate. E, visto che nessuno credeva loro, le bimbe chiesero una macchina fotografica e realizzarono alcune foto. In una di queste Frances era con quattro fate. In un'altra la piccola era invece con uno gnomo.
Ben presto l’episodio assunse un rilievo internazionale anche perché il già famoso Conan Doyle difendeva a spada tratta l’autenticità di quelle foto prima con due articoli sullo Strand Magazine, del dicembre 1920 e marzo 1921, e poi col libro «La venuta delle fate», pubblicato qui a Londra nel 1922. In uno dei suoi articoli Conan Doyle scrive addirittura:
«Posso immaginare il grido di ‘Falso!’ che farà sorgere. Ma le fotografie resisteranno all’investigazione. E’ una cosa che, naturalmente, non ha niente a che fare con lo spiritismo in senso proprio.
Ma qualunque cosa che può scuotere la mente dalle sue ristrettezze e farle comprendere che mondi senza fine ci circondano, separati solo da una differenza di vibrazione, potrà lavorare nella generale direzione della verità».
Conan Doyle muore nel 1930 senza sospettare di aver difeso un falso abbastanza grossolano. Anzi, più che un falso una burla che le due bambine ad un certo punto non seppero più controllare.
Conan Doyle, che pensava di essere un esperto di fotografia sostenne di non aver trovato nessun trucco ma in anni più recenti si è visto che le fate e gli gnomi delle foto altro non erano che delle figure di cartone, una delle quali, ironia della sorte, copiata da un libro per bambini cui aveva contribuito il papà di Sherlock Holmes nel 1914.
Elsie, la più anziana delle due, che poco prima di morire, negli anni Ottanta, ammise che le foto erano state solo uno scherzo.
E che non aveva mai confessato nulla per non imbarazzare i genitori e lo stesso Conan Doyle. In seguito anche Frances volle dire la sua, lasciando però uno spiraglio aperto al mistero: quattro fotografie erano con fate di cartone ma nella quinta le fate «Erano vere».
Restiamo in Gran Bretagna per raccontare altre storie, un po’ diverse da queste perché parliamo ora di pietre.
Ma anche con le pietre si può mentire. Non molto distante da Londra c’è uno dei complessi megalitici più famosi al mondo: Stonehenge.
Studiosi e appassionati si interrogano da sempre su come sia stato realizzato questo importante sito: quando, da chi e perché. Le pietre, ad esempio, sono di dimensioni tali da renderne difficile ancora oggi il trasporto e provengono da zone molto lontane.
Si sa che Stonehenge ha oltre 3500 anni ma sulla datazione precisa le opinioni divergono. Così come sulla sua funzione: le ipotesi più accreditate parlano di un tempio dedicato al Sole, magari con funzioni di osservatorio astronomico.
Ma di recente si è anche ipotizzato che si tratti di un monumento alla fertilità: in altre parole Stonehenge raffigurerebbe un’enorme vagina.
Sia come sia, le polemiche più recenti su Stonehenge hanno avuto per oggetto alcuni restauri portati avanti ormai oltre un secolo fa.
Nel gennaio 2001 un ricercatore, preparando la propria tesi di dottorato, ha trovato foto dei primi del Novecento in cui si vedono operai all’opera per sollevare Menhir che da secoli erano caduti l’uno sull’altro.
Insomma, la Stonehenge di oggi non è quella che vedevano gli inglesi un secolo o dieci secoli fa, come del resto dimostrano vari dipinti.
I responsabili del sito hanno dato ampie assicurazioni circa la scrupolosità dei restauri compiuti ma il sospetto che qualche pietra pesante alcune tonnellate non occupi la collocazione che originariamente le era stata assegnata, non è stato fugato.
In Gran Bretagna esistono molti geoglifi, cioè gigantesche figure incise nel terreno e visibili chiaramente solo dall’alto. Sono figure di difficile datazione ma in genere la loro creazione viene fatta risalire alla preistoria. Tra i casi più noti ci sono i cavalli di Uffington e di Westbury, il Gigante di Cerne, nel Dorsetshire, alto ben 55 metri, e c’è il cosiddetto «Long Man» di Wilmington, nel Sussex.
Ed è stato proprio quest’ultimo, l’estate scorsa, a rivelare un’amara sorpresa.
Il "Long Man" di Wilmington è da sempre considerato o l'immagine di un guerriero anglosassone, raffigurato così all’epoca dell’occupazione romana della Britannia oppure un simbolo della fertilità risalente all'Età del Ferro.
Alto circa 70 metri, «Long Man» è uno dei geoglifi più grandi del mondo.
Benché il documento più antico che lo riguardi risalga al 1710, molti studiosi hanno ipotizzato che la figura abbia circa 2000 anni. Tuttavia, stando agli esami condotti nell’estate scorsa «Long Man» potrebbe invece risalire “solo” alla metà del XVI secolo, cioè meno di cinquecento anni fa.
Restiamo ancora un po’ nella Preistoria per parlare di uno dei più grandi scandali della paleontologia: la scoperta dell’Uomo di Piltdown, nel 1912, sempre in Gran Bretagna.
Fu un paleontologo dilettante a fare la scoperta: si chiamava Charles Dawson e sperava di conquistarsi un posto nella storia della ricerca. Invece il suo posto è tra i grandi imbroglioni della scienza.
Era il 1912: il giovane ricercatore Charles Dawson annuncia di aver scoperto i resti fossili di un essere umano più antico dell’uomo di Neanderthal.
La rivista «Nature» parlò della «più importante scoperta nel suo genere mai fatta in Inghilterra» anche perché sembrava smentire l’idea che l’umanità si fosse sviluppata in Africa.
Due scienziati autenticarono il cranio e le ossa che Dawson aveva scoperto: risalivano al periodo Terziario (cioè da 65 milioni a 2 milioni e mezzo di anni fa) nonostante non mostrassero punti in comune con l’homo sapiens di cui l’uomo di Piltdown sarebbe dovuto essere il progenitore.
Dawson divenne uno stimato scienziato. Solo nel 1949 si scoprì che la mascella dell'uomo preistorico apparteneva in realtà ad un orango e che le altre ossa appartenevano ad animali ed erano state “invecchiate' affinché sembrassero dei fossili. Lo scandalo fu enorme anche perché si scoprì che Dawson aveva falsificato altri 38 ritrovamenti.
Quello di Dawson non è un caso isolato. La storia, in questo caso della paleontologia, conta anche altre cadute rovinose.
Tra le più clamorose quella di Shinichi Fujimura, un giapponese, conosciuto come “Il Divino Scavatore”, per la sua abilità nello scoprire reperti antichi di decine di migliaia di anni. Poi, complice una telecamera, Fujimura fece una figuraccia memorabile.
Fujimura nel 1981 scopre il più antico artefatto mai trovato in Giappone. Inizia così la sua ascesa, ricca di scoperte e onori.
I suoi sempre più clamorosi ritrovamenti portano a retrodatare sempre più l’apparizione dei primi abitatori del Giappone. Purtroppo però per Fujimura, il 22 ottobre 2000, alle 6 di mattina, alcuni giornalisti seguono l’archeologo più famoso del Giappone e lo fotografano mentre sotterra alcuni reperti presi da sacchetti di plastica.
Il servizio giornalistico, pubblicato il 5 novembre 2001, costringe Fujimura ad una penosa confessione pubblica e apre la strada alla revisione di tutte le sue pubblicazioni scientifiche.
Come è stato possibile che Fujimura l’abbia fatta franca per così tanto tempo?
Sicuramente una spiegazione risiede nel fatto che rocce e pietre non possono essere datate direttamente con il carbonio ma solo andando a verificare l’età dello strato di terra in cui vengono scoperte.
Tuttavia, a ben vedere, Fujimura si comportava in modo abbastanza ingenuo, e non solo perché seppelliva nei vari siti pietre e reperti della sua stesse collezione privata.
Infatti ormai il 90% delle scoperte del primo paleolitico risultavano essere state fatte da una sola persona: Fujimura, appunto. Secondo alcuni le scoperte-bufala di Fujimura furono accolte in modo acritico da mondo accademico e stampa per una semplice ragione: i suoi ritrovamenti provavano che il popolo giapponese era più antico di quanto in genere si pensi.
Anzi, gli ultimi scavi suggerivano l’ipotesi che in Giappone fossero stati individuati i più antichi insediamenti abitativi non solo dell’Asia ma del mondo intero. Insomma, Fujimura gratificava il nazionalismo di molti giapponesi.
Restiamo nel mondo antico ma avviciniamoci al nostro Mediterraneo. Tra il maggio e il giugno 1873, Heinrich Schlieman, un ricco commerciante tedesco con la passione dell’archeologia, portò alla luce il “Tesoro di Priamo”, il re della città di Troia di cui parla Omero.
Tuttavia intorno alla scoperta di Schlieman c’è sempre stato scetticismo: considerato dagli archeologi come un dilettante senza scrupoli, Schlieman trovò il tesoro di Priamo alla sua quarta campagna di scavi nella zona dove riteneva sorgesse, oltre duemila anni prima di Cristo, Troia. Da qui il sospetto che in realtà il tedesco abbia messo insieme e presentato in un colpo solo i vari ritrovamenti fatti nel corso degli anni. Infatti il tesoro si componeva di quasi novemila pezzi, in gran parte di piccolissime proporzioni e secondo alcuni risalenti ad epoche diverse tra loro.
Non basta: negli anni seguenti, venne fuori una lettera in cui Schlieman rivelava l’intenzione di commissionare ad un orafo parigino una copia del tesoro.
Non se ne fece nulla ma la cosa aumentò i sospetti. Anche perché, successivamente Schlieman trovò a Micene alcune importanti tombe tra cui quella appartenuta ad un altro personaggio omerico: il re Agamennone, la cui maschera funeraria ha sempre però destato dubbi. Per alcuni sarebbe un falso, per altri risalirebbe ad un epoca precedente a quella in cui sarebbe vissuto Agamennone. Purtroppo, buona parte degli interrogativi legati alle scoperte di Schlieman sono destinati a rimanere tali.
Infatti, trasportato in Germania a fine ‘800, il Tesoro di Priamo venne preso da sovietici alla fine della Seconda guerra mondiale e mai restituito. Solo circa sei anni fa Mosca ne ha ammesso il possesso ma senza avviare alcuna indagine per stabilirne l’autenticità.
Passiamo all’Egitto per parlare di una figura mitica e affascinante: “Nefertiti”.
Un celebre busto – conservato a Berlino e reclamato a gran voce dalle autorità egiziane – ci ha tramandato la bellezza di questa regina il cui nome, non a caso, vuol dire «La bella è venuta».
Ora di Nefertiti non è mai stata individuata la tomba e quindi la mummia. L’estate scorsa però un’egittologa americana, Joanne Fletcher, insieme ad un gruppo di ricercatori inglesi e davanti alle telecamere di una televisione britannica, ha condotto una ricerca che l’ha convinta di aver trovato la mummia della mitica Nefertiti.
La mummia, catalogata come "No. 61072", sarebbe uno dei tre corpi mummificati custoditi nella Valle dei Re, in una galleria attigua alla camera funeraria del faraone Amenofi II.
L’annuncio della Fletcher è stato accolto con scetticismo dalle autorità egiziane, che contestano non solo la scoperta ma anche i modi con cui è stata annunciata. Il responsabile delle antichità egizie, Zahi Hawass, nega decisamente questa possibilita’:
“Molti hanno parlato di questa mummia, ivi incluso Joanne Fletcher che ha annunciato che si tratterebbe di Nefertiti.
Tuttavia si era sbagliata. Questa è una mummia reale ma non è la mummia di Nefertiti ed ecco perche’: Joanne Fletcher ha detto che questa mummia si riferisce ad una donna di trenta anni, ma quanti hanno avuto modo di studiare questa mummia parlano di un’età compresa tra 14 e 19.
Nefertiti ha avuto sei bambini e fu sposata con Akhenaton per più di 12 anni, il che vuol dire che doveva avere più di 55 anni”.
“Non ho prove del fatto che questa mummia sia la mummia di una donna. Non assomiglia ad un corpo umano femminile che ha avuto sei figli.
Ecco perché ritengo che si tratti della mummia di un prete e non di Nefertiti. Un altro errore commesso dalla Fletcher è stato quando ha parlato di un danneggiamento della mummia come vendetta contro Nefertiti. Se si vuol danneggiare una mummia , la si distrugge per intero.
C’e’ un danno ma si è verificato per cause del tutto naturali. Inoltre, la Fletcher ha accennato ai forellini all’interno dell’orecchio risalenti al periodo Armana. Ancora una volta si tratta di una fandonia. Tali fori a quell’epoca erano in voga tra le giovani donne reali e i giovanotti.
Ma non possiamo definire il sesso di questa mummia. Tuttavia ne parlano tutti. Si crede che sia la mummia di Nefertiti. Ma non è così, non si tratta della mummia di Nefertiti”.
L’Egitto non smette di far discutere per i più svariati motivi.
Lo scontro tra quanti credono che ci sia ancora molto da scoprire - non solo per quanto riguarda i tanti tesori ancora nascosti sotto la sabbia ma anche per quanto riguarda le interpretazioni di quello che già è noto - e quanti invece pensano che non ci siano grandi misteri da svelare è continuo e vivace. Un amico di Voyager, un egittologo di fama, il dott.
Francesco Tiradritti, ha recentemente pubblicato un articolo di fuoco contro quelli che chiama i «Piramidioti». Ironizzando su quanti hanno tratto conclusioni affrettate dalle statue del Faraone Akhenaton, Tiradritti accenna alle “Teste di Modigliani”. Già, le famose teste di Modigliani, ve le ricordate…?
E’ il 1984: Livorno si prepara a celebrare il centenario della nascita di uno dei suoi cittadini più famosi: lo scultore e pittore Amedeo Modigliani, nato nel 1884 e morto, a soli 36 anni, a Parigi nel 1920.
E’ nella capitale francese che Modigliani ha dato il meglio di sé, scolpendo e dipingendo le celebri figure slanciate e snelle, dai colli esageratamente lunghi e dagli occhi spenti. Si dice che prima di lasciare Livorno, Modigliani abbia distrutto le opere create nella sua città natale, dove non si sentiva amato.
E’ quindi grande la sorpresa quando, alla vigilia delle celebrazioni in sua memoria, si scoprono due teste scolpite in un canale della città: lo stile ricorda troppo quello delle più note opere dell’artista per dubitare che si tratti di sue sculture, gettate in acqua prima di partire per Parigi. I critici autenticano velocemente le due teste e sono in molti quindi a dover fare un faticoso passo indietro quando tre studenti livornesi rivelano di aver scolpito le teste con l’aiuto di un trapano elettrico.
Non vengono creduti subito e così i tre vengono invitati dal critico d’arte Federico Zeri in televisione dove, davanti alle telecamere, realizzano in pochi minuti altre “teste di Modigliani”. La burla era proprio “vera”.
Ma se le teste di Modigliani possono essere classificate tra le burle scappate di mano agli autori – un po’ come le fate di Conan Doyle di cui abbiamo parlato all’inizio – quando si parla delle pietre scolpite di Ica, nessuno parla di burla.
Al contrario il dibattito tra chi si dice certo che si tratti di un falso e chi invece pensa che quelle pietre siano autentiche è feroce.
Ica e’ una citta’ sulla costa meridionale del Perù. Qui viveva fino a pochi anni fa lo scomparso Javier Cabrera Darquea. Le pietre di Ica sono, nel bene e nel male, la sua storia in quanto questo discreto medico di provincia in quarant’anni ha raccolto circa 15 mila pietre, di varia forma e peso, tutte con la stessa caratteristica: graffiti che raffigurano uomini a cavallo di dinosauri, uomini che eseguono trapianti di cuore o di cervello, che scrutano il cielo con cannocchiali.
Secondo Cabrera si tratta di incisioni realizzate da un’umanità evoluta, vissuta milioni di anni or sono. Per i suoi detrattori Cabrera – scomparso pochi anni fa – era più o meno consapevolmente vittima di alcuni furbi contadini che, fiutato l’affare, scolpivano pietre che il generoso medico di Ica non esitava a comprare.
Ma è davvero così facile liquidare la faccenda come un grossolano falso?
E’ difficile immaginare dei contadini che realizzano, ognuno per conto proprio, pietre dai disegni che rivelano una “mano” abbastanza simile tra loro. Lo stesso Cabrera ha ammesso che tra le sue pietre ce ne possano essere molte false. Ma “molte” non sono “tutte” ed è possibile che i falsificatori – un paio dei quali rei confessi e noti allo stesso Cabrera – si siano ispirati a pietre veramente ritrovate nella zona di Ica.
Infatti i disegni delle 15 mila pietre rappresentano una flora e una fauna spesso non tipiche del sud America oltre a indicazioni geografiche e astrali “anomale”.
Purtroppo, al giorno d’oggi, datare una pietra è molto difficile, quindi non resta che attendere i progressi della scienza prima di chiudere per sempre – o riaprire – la questione delle Pietre di Ica.
Non sempre poi i falsi sono totali. Può darsi che, ad esempio, su un reperto originale, qualcuno abbia apposto un’incisione falsa.
E’ l’ipotesi che si fa a proposito della controversa urna funeraria di un certo Giacomo, secondo alcunu il Giacomo apostolo di Gesù Cristo. Rinvenuta nell’ottobre 2002, l’urna ha fatto gridare – è il caso di dirlo – al miracolo. La rivista Usa “Biblical Archeology Review” scrisse che si trattava della prima «prova archeologica dell’esistenza del Messia».
Come mai? Perché non solo si tratta di un’urna del tipo di quelle in uso presso gli ebrei di duemila anni fa per conservare le ossa dei defunti, ma soprattutto perché l’urna reca una scritta ben precisa: «Giacomo, figlio di Giuseppe, fratello di Gesù».
Ovviamente è intorno alla scritta incisa sull’urna che si sono accentrate le attenzioni di tutti. Infatti secondo alcuni fratello di Gesù vorrebbe dire semplicemente «fratello di fede» o essere il sinonimo di «parente prossimo».
Per altri invece, Gesù ebbe in Giacomo un vero e proprio fratello, forse un fratellastro, frutto di un matrimonio precedente a quello con Maria, del falegname Giuseppe.
Problemi dogmatici che dovrebbero essere sciolti dopo quelli archeologici.
Ma anche tra gli esperti non c’è accordo: due commissioni nominate dall’Autorità israeliana per le antichità hanno concluso, la scorsa estate, che l’urna ha davvero duemila anni mentre la scritta potrebbe essere molto più recente. Ma, pochi mesi fa, durante un congresso di archeologi e biblisti sono emerse delle riserve: per alcuni ricercatori l’incisione potrebbe essere anche autentica almeno in parte.
Infatti, nei primi esami le tracce di un tentativo di pulizia sarebbe stato scambiato per una contraffazione.
Sull’urna di Giacomo si discute ancora, quindi. Ma, per restare in ambiente biblico, sia pure passando dal Nuovo al Vecchio Testamento, si parla anche di altro. Da tempo, ad esempio, l’Arca di Noé tiene occupati ricercatori di vario livello e credibilità.
Il Monte Ararat, a 3.900 metri d’altezza, in Turchia è il principale centro di attrazione ma l’area è così vasta che spesso le presunte scoperte distano tra loro anche molti chilometri. Quasi che Noé, se è esistito davvero, più che un’Arca avesse una flotta a sua disposizione.
La difficoltà, anche in questo caso, a trovare una risposta certa alla domanda «Dov’è l’Arca?» ha dato il via anche ad una sorprendente serie di falsi e imbrogli, più o meno fantasiosi.
L’episodio forse più divertente è quello che ha avuto, alla fine degli anni Ottanta, per protagonista un avventuriero americano: George Jammal. Un giorno Jammal si presentò alla rete televisiva Usa “CBS” con un pezzo di legno in mano. L’aveva trovato durante una sua spedizione sul monte Ararat, disse.
Ed era convinto che si trattasse di un pezzo dell’Arca di Noé. Fu creduto, purtroppo: nacque così il documentario, prodotto dalla CBS e con lui protagonista, dal titolo:
«L’Incredibile scoperta dell’Arca di Noé». Solo dopo venne fuori la verità: non solo Jammal non era mai stato non dico sull’Ararat ma neanche in Turchia ma il pezzo di legno che aveva mostrato era molto americano, troppo americano: era una traversina delle ferrovie della California.
Altre volte i falsi sono più difficili da scoprire, anche perché dietro non c’è un avventuriero un po’ sprovveduto ma un’organizzazione ben organizzata.
Il prossimo caso riguarda uno dei casi più clamorosi di documenti falsi prodotti nel corso del secolo scorso: i falsi «Diari di Hitler», una vicenda in cui recentemente si è visto lo zampino degli allora potenti servizi segreti della Germania dell’Est, la famigerata “Stasi”. Vediamo
1983 lo storico Hugh Trevor-Roper autentica 60 agende degli anni Trenta e Quaranta in possesso del settimanale tedesco "Stern": si tratta dei presunti diari segreti di Adolf Hitler.
Un ritrovamento decisivo per la ricerca storica su uno dei periodi più bui del XX secolo.
Invece è un colossale falso, pagato dal solo editore inglese oltre due milioni di sterline.
Il falsario tedesco Konrad Kujau aveva venduto a “Stern”– grazie alla mediazione di Gerd Heidermann, un giornalista del settimanale - alcune pagine dei presunti diari di Hitler in cambio di circa 10 miliardi di lire dell’epoca. "Stern" aveva poi ceduto i diritti ad altri gruppi editoriali in tutto il mondo. Il governo tedesco aprì un'inchiesta e, grazie anche ad analisi chimiche, fu smascherato il falso. Kujau fu condannato a 3 anni di carcere. Solo pochi mesi fa, alcuni documenti emersi dagli archivi del servizio segreto della Germania Comunista, la “Stasi”, hanno rivelato un altro aspetto inquietante: Heidermann era anche un agente della Stasi fin dagli anni Cinquanta. E così un clamoroso caso di falso col tempo è divenuto un vero e proprio complotto internazionale.
La chimica quindi spesso può aiutare a smascherare alcuni documenti falsi. Ma se per il caso dei diari di Hitler nessuno ha messo in dubbio il risultato delle analisi condotte, in altri casi le cose non scorrono in modo altrettanto liscio.
Sempre recenti sono le polemiche – come vedete il passato fa sempre notizia – sulla Mappa di Vinland, una mappa vichinga datata 1434 che dimostrerebbe che già nel 1.400 i vichinghi conoscevano l’America e vi erano sbarcati con qualche decennio d’anticipo su Colombo. Ora neanche la chimica riesce a mettere d’accordo gli studiosi. Vediamo perché.
La Mappa di Vinland non è un vero e proprio falso: probabilmente è un’antica pergamena “ritoccata” negli anni Venti. Questo il verdetto di alcune analisi condotte nel 2002 i quali hanno scoperto che soprattutto il disegno di quella che sembra essere la costa canadese ha una particolarità: l’inchiostro usato è a base di una sostanza apparsa sul mercato solo negli anni Venti.
Recentemente una ricercatrice statunitense, Jacqueline Olin, ha affermato di poter provare che tale composto avrebbe potuto formarsi naturalmente.
La questione della Mappa di Vinland è quindi tutt’altro che chiusa anche se c’è da osservare un particolare curioso.
Autentica o no, sembra che comunque la prova che i vichinghi siano sbarcato nel Nord America prima di Colombo possa essere provato dall’esistenza dei resti di un villaggio vichingo trovato pochi anni fa vicino a Terranova, sempre in Canada.
Ma in realtà non si può mai star certi di nulla, o quasi. Poche settimane fa una squadra di archeologi scozzesi convinta di aver trovato i resti di un villaggio vichingo si è dovuta arrendere all’evidenza: quello che avevano trovato, scavando, erano solo i resti di un patio degli anni Trenta.
L’ultima bufala, in ordine di tempo, di una storia purtroppo, forse infinita. …